domenica 27 marzo 2011

Cosa resterà dopo le rivolte arabe dietro i dittatori, piccoli leader crescono Dal ruolo dei militari all'ascesa dei Fratelli musulmani, i nuovi capi

Chi governerà i paesi della Mezzaluna dopo le cadute degli autocrati? Previsioni assai difficili: l'inverno dello scontento arabo è un'onda lunga che travolge assetti e certezze consolidate. Ma, qui come altrove, la lettura deve partire dalle strutture di continuità del potere e dalle forze che più saranno capaci di adattarsi al vento impetuoso della transizione.

Un ruolo chiave lo giocherà comunque l'ambiente militare vero fattore unificante di società assai diverse, dall'Algeria all'Egitto. In Siria più che il Baath svuotato di funzioni dirigenti come già in Iraq, conta l'appartenenza alle nuove asabiya, le solidarietà che forgiano rapporti fondati su antiche ma anche nuove relazioni. Prima ancora che alawiti, i siriani che contano si sono formati alla Scuola di artiglieria di Aleppo. Dunque, come in Egitto, in Siria l'esercito pesa. Ma se cadesse Bashar Assad e la maggioranza sunnita prendesse il potere, un ruolo decisivo lo avrebbero i Fratelli musulmani, che qui hanno posizioni più radicali dei loro confratelli egiziani.

Soprattutto dopo che Assad padre annientò buona parte dell'organizzazione facendo tirare a alzo zero contro Hama, città in cui la Fratellanza era insorta. Le vittime furono decine di migliaia. Almeno sino a questi caldi giorni le "regole di Hama" erano un terribile monito per i nemici del regime.

Anche in Egitto l'esercito è un fattore chiave e non è detto che alcuni membri dell'organismo che guida la transizione non diventi il fiduciario di questa potente struttura che garantisce al tempo stesso coesione nazionale e il sistema di alleanze internazionali. Ma all'ombra delle Piramidi contano anche i Fratelli musulmani, che hanno una forza radicata nella società e si disputeranno il consenso con laici come El Baradei, che potrebbe coagulare attorno a sè i ceti modernizzanti, con il segretario della Lega araba Abu Moussa o con Nour, il capo del partito centrista e laico Ghad.
In Tunisia contano uomini legati al passato regime come Sebsi e Morjane ma anche il capo dell'opposizione Chebbi, oltre che il leader del partito En Nahda Gannouchi, movimento di matrice islamista che guarda ormai più all'esperienza dell'Akp turco che alla Fratellanza musulmana, dalla quale pure deriva.

Situazione inversa a quella siriana è quella del Bahrein, dove la maggioranza sciita è governata da una dinastia sunnita sorretta da Riad. Qui l'appartenenza religiosa diventa discriminante per capire come andranno le cose. In Libia si guarda agli uomini del Consiglio nazionale provvisorio, nel quale vi sono membri della società civile come Tarbel, leader della protesta a Bengasi, ma anche ex membri del regime come Jalil e Yunis.

Anche nello Yemen, dove vacilla il lungo potere di Saleh, sono alcuni ex a giocare un ruolo rilevante come i già ministri al Ahmar e al Iryani o il rappresentate alla Lega araba Mansour.

Come si vede, il futuro dei paesi arabi non ha solo un volto nuovo. Del resto, le sommosse sono state innescate da giovani che non avevano esperienza politica e dunque il dopo presenta evidenti fattori di continuità, almeno nei leader. Le rivolte non sono necessariamente rivoluzioni, anche se è evidente che i nuovi leader dovranno muoversi in contesti più simili a regimi pluralisti che alle odiate autocrazie.

(27/03/2011 da repubblicaonline)

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