martedì 23 febbraio 2010

L'Aquila - una città dimenticata - 1

L'AQUILA - Fanno impressione, dietro le barriere e i soldati, quei sacchi che sembrano pieni di sabbia. Fanno venire in mente le trincee. Ma basta toccarli per capire che sono pieni di "nodi", i giunti che serviranno a mettere assieme i tubi Innocenti dei puntellamenti. Ce ne sono decine di mucchi, in via Sallustio detta il Vicolaccio, dietro a piazza del Duomo. Tutto è tornato come prima, dopo la grande manifestazione degli aquilani arrabbiati. Militari e sbarramenti, si entra solo con permessi scritti. Sembra di essere davanti a uno strano campo di concentramento che imprigiona le case e tiene fuori i loro abitanti. Ma tante persone, in questo lunedì di pioggia, continuano ad arrivare qui dove il corso Vittorio Emanuele finisce e si svolta in via San Bernardino. Non sono i "turisti del terremoto". Qui c'è la rete che regge le chiavi appese dagli abitanti del centro storico che non vogliono perdere la speranza di poter aprire, al più presto, l'uscio di casa o il lucchetto della serranda del negozio. In poche ore la rete è diventata una specie di Muro del pianto. Vietato andare oltre, il centro resta off limits. E allora si appendono qui i biglietti della speranza e della rabbia.

"We have a dream: L'Aquila". Il sogno è scritto su un foglio a quadretti. "Nessun maggior dolore che ricordarsi nel tempo felice nella miseria". Abitavano in centro gli studenti e i professori, i violinisti e i teatranti, gli operai e gli artigiani, i baristi e i bottegai. C'è chi denuncia "le facce lorde" di quei "cani che si racquetano" solo quando hanno finito di "mordere il pasto", c'è chi dice che oggi "bisogna ripulire l'Aquila dalle macerie e non solo".

"Ieri non c'ero", dice Anna. "Non sapevo della manifestazione. Oggi sono venuta a vedere, a leggere questi messaggi. Io sto in albergo a Tortoreto, arrivo con la corriera ogni mattina a lavorare a Coppito. Alla mia casa in via XX settembre quasi non pensavo più, forse l'avevo dimenticata per non soffrire troppo. Ma ho saputo di queste chiavi, sono venuta a vedere. Qualcosa si muove, finalmente. Forse riusciremo a far capire che gli aquilani esistono ancora. Stasera farò tardi, prenderò l'ultimo autobus. Domenica, quando si porteranno via le macerie con le carriole e le callarelle, i secchi, ci sarò anch'io".

Dietro il Muro ci sono le case crollate che hanno ucciso giovani e vecchi. Ci sono i convitti un tempo pieni di studenti, le osterie, le chiese, le case piccole e i palazzi dai quali non esce nessun rumore. "Rivoglio la mia casa, agevolate anche chi non ha cognomi importanti e conoscenze". "Vogliamo le nostre case, quelle di Sdrucciolo dè Poeti". Cartelli grandi e bigliettini di pochi centimetri. "Sono ancora qui per amore della mia città". Le polemiche sono arrivate anche su questa barriera. "Sgomberare le macerie e la giunta comunale". "In piazza Palazzo c'è divieto di accesso agli aquilani. Corsie preferenziali, invece, per politici in passerella, giornalisti rampanti e altri sciacalli vari". "Una città ha bisogno di un centro". Poi, come una sentenza: "Il miracolo aquilano: 700 anni di storia sotto sequestro".

Oggi non ci sono le persone che protestano e il centro fa quasi paura. Oltre i sacchi del Vicolaccio iniziano i cumuli di macerie. "E pensare - dice Eugenio Carlomagno, il direttore dell'Accademia di Belle Arti - che se tutto non fosse rimasto fermo per quasi un anno, oggi il 25% degli abitanti del centro potrebbero essere a casa propria. Bastava decidere subito cosa fare, non recintare e basta. Bastava affrontare il centro pezzetto per pezzetto, individuare le case da abbattere e quelle da ristrutturare. Ci sono abitazioni del tutto agibili e altre che lo sarebbero con piccoli lavori che in questi mesi potevano essere eseguiti. E invece non sappiamo nemmeno se le fogne funzionino o no, se sia possibile riattivare l'acquedotto e la luce elettrica".

La piazza del Comune è una montagna di detriti. In via Antonelli, attraverso lo squarcio di un muro, si vedono ancora i letti e i materassi. Via del Falco è bloccata dai detriti della casa di Franco Fiorillo, pittore. "Pochi giorni dopo il terremoto fu mandata qui una ruspa, per sgomberare la strada. Ma l'uomo che la guidava, dopo avere caricato una volta o due la benna, vide un pianoforte intatto e disse: quello non è un rottame, io non posso spezzarlo. Se n'è andato con la sua ruspa e da allora le macerie sono rimaste qui".

Ci sono i libri d'arte e di storia, resi fradici dalla pioggia e dalla neve. In via Del Bargello ci sono ancora i panni stesi sul vicolo. Jeans, calze e felpe, qui abitavano studenti. "Ci hanno sempre detto: abbiamo dovuto costruire le nuove case, non potevamo pensare a tutto. Ma non c'erano forse in Italia ditte e imprese in grado di fare qualcosa anche in centro? E invece tutto sta marcendo e se ne sono andati anche i topi, perché non trovano più nulla da mangiare".

Tutto buio, nel cuore dell'Aquila abbandonato. Qualche luce, nella sera, resta accesa nei corsi centrali Federico II e Vittorio Emanuele. C'è anche il piccolo miracolo di una bottega illuminata e aperta. "Siamo riusciti ad alzare la serranda - dice Giuliana Di Pietrantonio, titolare della Fratelli Nurzia - l'8 dicembre, il giorno della Madonna. E siamo contenti". Profumo di caffè e di torrone, facce di clienti contenti di avere ritrovato un'abitudine. A fianco hanno riaperto anche l'Ottica e l'Hotel Centrale ha riacceso l'insegna: riaprirà fra pochi giorni.
"I commercianti che erano qui - racconta la signora - vengono a chiedermi: ma la gente viene? Io dico di sì, e noi che abbiamo la fortuna di essere sul corso dobbiamo fare uno sforzo e riaprire tutti. Certo, non sarà come prima, perché mancano ancora tutti gli abitanti del centro. Ma non si può solo aspettare, ci vuole coraggio". Hanno riaperto anche l'osteria Ju Boss, un barbiere, un piccolo bar in via Castello. "A Natale gli affari non sono andati male. I vigili del fuoco hanno comprato il nostro torrone per regalarlo agli amici. Sono arrivati anche i turisti, sì, quelli che si lamentano perché da qui si vedono poche macerie". Nel buio di via Sallustio, una luce rossa intermittente. È nell'ufficio delle Poste. Indica i numeri di chi è invitato agli sportelli. Due, sette, venticinque... Come se domani arrivassero i cittadini, come se non ci fosse stato il 6 aprile.

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