venerdì 29 maggio 2009

Tursha. 1. (prologo)

Fin dalla mattina avevano visto che non sarebbe stato un giorno fausto. E quella mattina infatti, prima furono costretti a inseguire una triremi romana che li allontanò dalla nave alla quale stavano prestando scorta. Questa trasportava la statua della dea Astarte, dono dei Cartageni. Allontanadoli troppo, loro che speravano di raggiungerli in fretta e dar battaglia, distruggerli, come meritavano per gli insulti che avevano proferito contro la loro gente, per tornare in breve tempo alla scorta. Ma dovevano capirlo che era solo una manovra diversiva, per tenerli distanti. Un'altra barca poteva agire indisturbata depredando gli ori, la statua, e il carico prezioso della nave che dovevano scortare. Avendo tutto il tempo di affondarla.
Infatti quando videro la colonna di fumo alzarsi nel cielo, alle loro spalle, capirono immediatamente lo sbaglio commesso. Erano caduti nella trappola come dei principianti, lasciando sguarnito il loro lato più debole, la nave che scortavano. Che effettivamente, quando, compiuta la virata, arrivarono sul posto del rogo, ormai non c'era più niente e nessuno da salvare. Ma nemmeno nessuno da inseguire.
Un'unica cosa sapevano, i responsabili non erano altro che i loro più acerrimi nemici, i focei di Alalia, avrebbero pagato per questo nuovo affronto. Avrebbero venduta a caro prezzo la loro pelle all'ingresso dell'Ade. Non sarebbe stato risparmiato nessun loro discendente, nessuna pietra delle loro case sarebbe rimasta in piedi, e nemmeno l'erba sarebbe più cresciuta in quel luogo. Si sarebbe certo rifiutata di crescere in un luogo così immondo. Sarebbe stata fatta giustizia.
Ora c'era solo una cosa da fare, lanciarsi all'inseguimento della nave nemica, e far pagare, con la loro vita, lo sgarro fatto. Ce l’avrebbero fatta, Poseidon li avrebbe aiutati a raggiungere quella barca, troppo veloce per loro, ma sicuramente già imbevuti di gloria, che certamente non avrebbero pensato di ritrovarsi alle spalle i più valorosi guerrieri Tursha dell'intero Mediterraneo. Discendenti diretti di famosi pirati che già avevano scorrazzato in lungo e in largo nel mare Egeo, quando loro, i focei, non avevano nemmeno il coraggio di avventurarsi nel loro mare.
La storia insegnava che i focei erano troppo vigliacchi per combattere una battaglia a viso aperto. Già quando scapparono dalle loro terre senza combattere. Lasciando le loro case all'invasore dell'est, costrinsero alla fuga il resto dei popoli loro alleati, che se non avessero seguito il loro esempio, sarebbero rimasti uccisi, o fatti schiavi.
Ma questi erano diventati malgrado tutto pirati a occidente, assalendo navi e porti Shardana, Cartagegi e quelli Tursha. Sempre agendo con l'inganno della debole strategia fatta di tradimenti e sotterfugi, che spesso portava anche i suoi frutti, ma certo era che i focei erano tra i più odiati mercanti della zona. Erano quelli che vendevano al prezzo più alto, ed erano quelli che raziavano un intero villaggio anche se non erano in guerra con questo. E quando gli si poteva far pagare qualcosa lo si faceva con la loro stessa moneta.
Come ora, dopo il loro arrembaggio alla nave Tursha, la scorta si precipitò all'inseguimento. A vele spiegate e rematori che tenevano un'andatura molto sostenuta, solo per riuscire a ingaggiar battaglia nel minor tempo possibile, li avrebbero raggiunti, avrebbero fatto il possibile. Se fossero tornati vincitori avrebbero fatto tutti un pellegrinaggio a Poseidonia all'altare di Poseidon per rendergli gli omaggi della vittoria.
Procedevano spediti, ma le vele della nave che inseguivano non si vedevano. Sapevano che aveva preso sicuramente quella rotta, ma doveva essere una triara, e per loro era troppo veloce. L'avrebbero raggiunta solo quando si sarebbero creduti ormai fuori pericolo. Erano loro che non dovevano cedere, erano certi che prima di sera sarebbero stati loro addosso. Il problema era solo quello di raggiungerli, perché poi, la battaglia non la temeva nessuno.
Ma un altro evento forse veniva in loro aiuto, si era alzato un vento di tempesta, proveniente da ponente. Si manteneva soleggiato, ma in lontananza si vedevano già le prime nubi salire. Erano grossi cumuli che si spostavano proprio verso di loro. Certamente avrebbero prima incontrato la nave nemica, questo era già un vantaggio.
Fu poco dopo il mezzogiorno che si avvistarono le vele dell'imbarcazione nemica, erano spiegate, ma nessun rematore era al lavoro. Per cui si credevano già sicuri, e non avevano nessuno all'avvistamento. Avrebbero potuto avvicinarsi molto prima di essere scorti, grazie anche al mare che si era notevolmente ingrossato. La fortuna giocava ora dalla parte dei Tursha, che alla vista della nave si infervorarono ulteriormente, sentendo il predatore divenire preda. Cominciarono canti di incoraggiamento a resistere, canti di guerra che animavano ancor più di forza i già possenti guerrieri.
Il mare spumeggiava, le onde battevano contro il legno, schizzando e rinfrescando i corpi sudati, rigenerandoli dal calore. Le voci scandivano il ritmo e il tamburo teneva il tempo, il loro comandante era osannato nei canti. Già lo ringraziavano di portarli alla gloriosa battaglia, per vendicare gli ori perduti. Le schiene si muovevano a ritmo sincronizzate tra loro. Un movimento muscolare perfetto che muoveva e agitava l'intera imbarcazione. Le nuvole ormai sopraggiungevano a coprire il sole ormai erano sicuri anche di essere stati avvistati dall'altra barca, ma ciò non importava, visto che non le erano più tanto distanti. Anzi si vedeva che ora anche gli altri remavano, ma a un ritmo più blando, non certo come loro, erano sempre più vicini.
Eppure la nave nemica era una triara, aveva due file di remi per parte più della loro, ma questo ormai non le sarebbe bastato, loro avevano una copertura di vele maggiore, ma ancora per poco, perché ormai il vento era troppo forte. Avrebbero perso tutto se le avessero tenute ancora spiegate. I loro nemici le avevano tutte serrate, e avanzavano solo coi remi, col mare mosso però non riuscivano a tenere un buon ritmo, anche perché coordinare cinque file di remi era difficile con tutto il peso del carico, tanto più con le onde. Spesso le ultime due in alto non toccavano nemmeno l'acqua. Allora lo sforzo del resto diventava maggiore, in quanto dovevano sopportare anche il peso della parte mancante. Voleva dire che perdevano molto tempo a far andare dritta la nave, sopratutto quando arrivavano forti ondate che la spostavano dalla sua rotta.
L'inbarcazione Tursha chiaramente non era da meno, anche questa aveva i suoi problemi, ma già il fatto di aver meno remi e niente carico, poteva aver problemi nel tener dentro l'ultima fila. Ovvero dall'altro lato veniva impressa solo la forza di una fila in più, non di due o tre a seconda delle ondate, e allora rimettere in rotta era notevolmente più facile. Ma ora stavano entrando nella tempesta, non sapevano come sarebbe andata a finire.

Il sole stava terminando la sua corsa giornaliera e a est, nel cielo ancora azzurro, comparivano le prime stelle. C'era parecchio vento quella sera, e si stava preparando una tempesta di quelle molto forti, era tutto il giorno che malgrado il sole battente remavano all'inseguimento della triara focea, ormai Icore, Tonesh e Takesh lo sapevano, i focei erano molto forti, ma quando pensavano di essersi allontanati abbastanza era il momento in cui diventavano vulnerabili.
Ormai le stelle stavano per essere completamente coperte dalle sempre più incontenibili nubi, presto avrebbero seguito la rotta a naso, verso Alalia a Cirso. I Tursha conoscevano ogni onda del mare dei Shardana. Dovevano raggiungerli per forza, era per recuperare il carico per il tempio di Kisra. La mossa dei focei era stata troppo vigliacca.
Il mare era sempre più alto, anzi alcune ondate entravano direttamente in barca, si vedeva ancora la sagoma della nave a ponente. Avevano rallentato vistosamente, forse avevano dei problemi con la tenuta della nave, che probabilmente aveva il rostro storto. Certamente storto nello speronamento della nave mercantile, speravano fosse vero. Sarebbe stato proprio un colpo di fortuna, magari la loro situazione si fosse aggravata ulteriormente, non sarebbero loro sfuggiti a maggior ragione, c'era solo da sperare di esser loro addosso prima della tempesta.
Icore, era il più giovane e fremeva nell'attesa di ingaggiar battaglia, all'arrembaggio. L'orizzonte era rischiarato dai lampi del temporale e più vicini i loro perpetui nemici. Già i loro avi inseguivano i focei su un altro mare a oriente, oltre Regius, dove c'erano tanti altri antagonisti, come i punici o i cretesi e i pelasgi delle piccole isole egee, ma i peggiori di tutti erano i focei.
Il mare era sempre più grosso. Ora le onde entravano spesso nella nave ed erano già all'opera gli addetti allo svuotamento, davanti ai tursha i focei erano nella loro stessa condizione, forse peggio, glielo auguravano. Stavano già da tempo gettando a mare il bottino, il tesoro Tursha. Erano quasi loro addosso.
Ma ecco improvvisamente la barca focea si impennò su un onda e finì sul fianco. Allora fu subito dato l'ordine di cambiare la rotta, e i rematori di destra alzarono i remi, ma di colpo i remi sulla sinistra rimasero in acqua spezzati, contro il corpo duro del vascello nemico. Lo scafo che stava affondando era appena sotto il pelo dell'acqua e veniva loro in contro. Non si poteva più evitarlo. Era destino allora che quella nave di infidi focei li condannasse tutti a morte sicura. Avevano cozzato violentemente contro quello scafo, portati dalle onde, più volte. Nella loro stiva c'era già una falla che faceva entrare anche troppa acqua, avrebbe provocato l'inevitabile affondamento della nave. Sarebbero stati inghiottiti in questo mare, ormai così ingrato, sulle cui sponde si affacciava la loro seconda patria.
Tutti, capi e guerrieri si buttavano in mare, sulle botti per sperare di render cara la pelle. E chi tuffandosi trovava un foceo lo uccideva all'istante, se questo aveva la malaugurata sfortuna di non essere già annegato, ci pensavano i guerrieri Tursha a annegarlo nel suo stesso sangue.
Chi si tuffava a spada sguainata sul nemico per finirlo comunque, chi moriva impigliato nelle sartie che vagavano come reti sul pelo dell'acqua, due imbarcazioni ormai relitti adatte solo per i pesci in fondo al mare. In poco tempo delle navi non restavano che pezzi, botti, remi e corpi vaganti, più morti che vivi, nel mare prospiciente alla costa Shardana.
Tonesh sperava di essere vicino alla costa di amici, sperava di essere abbastanza a sud da raggiungere qualche villaggio di commercio.
Sia Icore che Takesh erano spariti ai suoi occhi, non sapeva che fine avessero fatto. L'unica cosa certa era che doveva nuotare e portare in salvo almeno la pelle, doveva distinguere sempre il ponente nell'uscire dalle onde, per non perderlo quando veniva buttato di sotto. Ormai non era più il caso di combattere.

La tempesta infuriava e le onde erano alte Tonesh cercava di non soccombere alle ire degli dei, le onde lo urtavano, lo spingevano, lo soffocavano, sommergendolo alle volte inaspettatamente. Era sballottato a dritta o a manca senza poter fare niente. Era stanco, avvilito, gli mancavano le forze sempre più, non riusciva più a concentrarsi, gli mancavano le forze, non riusciva più a distinguere la direzione giusta, ormai capiva di averla persa, eppure continuava a nuotare. Si sentiva morire. Non ce l'avrebbe mai fatta a vincere.

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