mercoledì 3 novembre 2010

Obama, You Can!

Sfida all'ultimo voto per Obama
(repubblica online)


Democratici nel fortino del Senato

La battaglia elettorale si è giocata con molti colpi di scena e risultati inaspettati. Dal trionfo repubblicano oltre le aspettative alla Camera, alla sconfitta democratica nel seggio dell'Illinois che fu del presidente, al sollievo del Nevada. Il paradosso Tea Party: stravincono con stelle del calibro di Rubio, ma alcuni candidati voluti dalla Palin alla fine decretano il fallimento del progetto di un controllo totale del Congresso

di ANGELO AQUARO

NEW YORK - C'era una volta l'America di Obama e forse c'è ancora. La notte più lunga degli States regala emozioni mozzafiato e dopo una giornata di sofferenza si conclude con un clamoroso pareggio. I repubblicani spinti dal vento del Tea Party prendono saldamente il controllo della Camera. Ma il Senato che promettevano di riconquistare resta nelle mani del partito del presidente. Non è un risultato da poco: le speranze di tenere la Camera erano minime.

La vera partita s'è giocata su quel Senato che negli ultimi due anni ha fra l'altro deciso le politiche del paese: bloccando o rallentando quelle riforme - dalla sanità all'ambiente - che la camera a maggioranza democratica aveva spesso inutilmente vidimato. E adesso che cosa succederà? Alle sei della sera, quando in Italia erano già le 11, l'America aveva già capito come stava girando il vento. L'assegnazione del seggio in ballo, nel Kentucky, tra Rand Paul, il pasdaran ultraliberista dei Tea Party, e Jack Conway, l'uomo d'ordine a cui si sono affidati i democratici, era il segnale atteso per capire quanto lunga sarebbe stata l'onda dei repubblicani: e i primi exit poll hanno dato un clamoroso scarto di 11 punti. Ma col passare delle ore è diventato sempre più chiaro che l'onda non sarebbe diventata uno tsunami. E che i democratici avrebbero potuto raccogliersi intorno all'ultimo baluardo del Senato.


Per carità: la sconfitta è sonora. Le prime indicazioni suggeriscono la debacle dei democratici soprattutto tra le donne, la classe media, i bianchi, gli anziani e gli indipendenti. Cioè quelle categorie che due anni fa avevano incoronato Barack Obama - che oggi ha contro il 54 per cento degli americani - e adesso danno fiato al Tea Party della rabbia.


A Miami, per esempio, il Partito del Tè festeggia la superstar Marco Rubio. Per fermarlo, perfino il New York Times aveva invitato i suoi lettori a votare per un non democratico: il governatore repubblicano uscente, Charlie Crist, che correva da indipendente. Ma anche qui gli exit poll hanno dato subito vincente l'"Obama di destra" con un travolgente 21 per cento di vantaggio.


E lui, Barack? Il presidente parlerà alla nazione oggi all'una di Washington, le 18 in Italia, spiegando come intende cavarsela nei prossimi due anni di coabitazione con i repubblicani. Ma non per niente subito dopo la mezzanotte di ieri aveva già chiamato, fra gli altri , Nancy Pelosi e John Boenher, cioè l'attuale speaker democratica della Camera e il repubblicano che la sostituirà, augurandosi di "lavorare con lui e con i repubblicani per trovare un campo d'azione comune, andare avanti nel lavoro e realizzare quello che il popolo americano si aspetta". Bella mossa.


Nella notte più lunga, il presidente era rimasto nello Studio Ovale tra i suoi collaboratori più stretti - per la verità già sotto accusa per aver sbagliato strategia, demonizzando il nemico invece di pubblicizzare le riforme fatte: e il presidente infatti già minaccia un repulisti. "Possiamo battere i poteri forti, possiamo battere Big Money, possiamo riprenderci ancora una volta la nostra chance", aveva detto Barack nell'ultimo, disperato appello al voto. "L'unica cosa che i repubblicani vogliono nei prossimi due anni è distruggermi: ma anche

se il mio nome non è sulla scheda, la nostra agenda dipenderà da queste elezioni". Cioè da quello che sarebbe accaduto al Senato. Perché è qui, poi, che Obama si è giocato tutto. Chiaro: la carica repubblicana alla Camera, dove tutti i 435 deputati sono stati eletti ex novo, era scontata. Ma la tenuta del Senato era condizionata ancora dalle elezioni del boom democratico, visto che erano in lizza solo 37 dei 100 seggi. E così in tutt'America è stata sfida fino all'ultimo.


In California la democratica Barbara Boxer prevaleva negli exit poll ufficiosi di 8 lunghezze. E a questo punto ai democratici - che avevano conservato anche il seggio a rischio del Connecticut e portato a casa quello del New Hampshire (grazie a quel Joe Manchin che però ha condotto una campagna anti-Obama) - bastava tenere un solo altro Stato - dall'Illinois terra di Barack al Nevada dove il decano Harry Reid era insidiato dall'ennesima Tea Party Sharron Angle - per conservare il controllo su una camera. Così quando, nella notte, le proiezioni hanno indicato la vittoria proprio di Reid (per la cui rielezione si era spesa nientedimeno che Michelle Obama) per i democratici si è trattato della doccia più calda mai sognata.


Conservare il Senato è un risultato che non era riuscito nemmeno ai presidenti che pure al midterm erano sempre stati puniti: da Ronald Reagan a Bill Clinton fino a George W. Bush. Un fallimento - visto dal

punta di vista dei repubblicani - che il Gop ora potrebbe addebitare proprio alla donna che ha contribuito al determinante successo dei Tea Party, cioè quella Sarah Palin che ha scelto personalmente 61 candidati, tra cui 9 schierati nelle sfide che dovevano essere decisive. Compresa Christine O' Donnell, un'ex cattolica

intransigente ribattezzatasi puritana, che ha fatto perdere ai repubblicani il seggio senatoriale del Delaware. E, proprio nella sua Alaska, il discusso Joe Miller, che ha combattuto fino all'ultimo un'altra sfida in bilico, con i risultati rimasti appesi fino all'alba.


Insomma la contraddizione è tutta qui: i Tea Party hanno spinto i repubblicani ma li hanno anche penalizzati con quei candidati un po' troppo hard. E' successo nel Delaware, è successo nel Nevada. E' successo in California, dove oltre al Senato i democratici hanno riconquistato con un "vecchio arnese" come Jerry Brown perfino la poltrona di governatore da due mandati riscaldata dal repubblicano Arnold Schwarzenneger. Ed è successo a New York, dove l'ennesimo Tea Party, Carl Paladino, si è schiantato nella gara di governatore con il democratico Andrew Cuomo, figlio di cotanto Mario.


Non basta. Come se le sorprese in questa notte non dovessero finire mai, in California è stata anche bocciata la discussa proposta di legalizzare la marijuana. L'ultima certezza della vigilia andata, anche questa, irrimediabilmente in fumo.

(03 novembre 2010)

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